A Vernante, fino alla prima metà del secolo scorso, poche erano le famiglie che vivevano in paese; la maggior parte delle persone, infatti, viveva nelle frazioni.
L’organizzazione famigliare era patriarcale: il capofamiglia era, cioè, il padre o l’uomo più anziano del gruppo familiare (solo in caso di morte del coniuge la donna poteva divenire capofamiglia).
I bambini sopravvissuti alla polmonite o alla tubercolosi, malattie all’epoca molto diffuse e frequenti, a otto anni cominciavano a lavorare, anche a scapito della scuola: i maschi andavano o a servitù (servizio) come margari (pastori) nelle vallate di Cuneo o di Nizza; le femmine, invece, andavano a servire le famiglie più ricche dei paesi vicini.
Si viveva al teit, casa costruita in pietra o argilla e legno con una stalla per il bestiame (luogo caldo in cui si passava l’inverno e dove si faceva la vihà, la veglia, cantando, suonando, ballando e raccontando storie di masche, streghe, e sarvan, folletti dispettosi). Al teit si allevava il bestiame, si lavorava il latte, la lana, la canapa, il legno e si coltivavano i campi a grano, orzo, segale e avena.
I pascoli erano agli alpeggi (gias), privi di confort e frequentati solo d’estate.
A Vernante era diffusa la röada (la corvée), ossia il lavoro collettivo volontario per il Comune, che veniva richiesto con la cria (le grida), cioè con un annuncio dal Municipio.
L’abbigliamento era realizzato in drap, tessuto robusto ed elastico di lana e canapa.
Tipici erano i calzoni a imbuto, gli escufun (calzoni invernali) e le garaule (uose al ginocchio). Grembiuli (fudìl), lenzuola e mutandoni erano realizzati in canapa; calze, maglie, coperte, fasce (nere o rosse) e berrette (copricapi per le bambine) erano in lana.
L’abito buono era uno solo: quello del matrimonio, che si sarebbe inoltre indossato durante le feste ed al proprio funerale. Le donne, il giorno delle nozze, non indossavano dunque un vestito bianco, bensì un abito nero, cosa che permetteva loro di poterlo riutilizzare.
Durante le feste, a Vernante si suonavano (e si suonano) fisarmonica, clarinetto e semitoun (fisarmonica bitonale); si ballavano (e si ballano) courente e balet (danze tipiche tradizionali) e si cantavano, soprattutto nelle osterie, le canzoni popolari, ossia canti senza autore inventati da contadini e lavoratori, tramandati dagli anziani, che servivano a far conoscere la vita dei secoli passati, le guerre, gli amori.
L’alimentazione, all’epoca, era semplice; fatta di pasti frugali: a colazione si mangiava pane di segale accompagnato da un pezzo di toma o una mela; a pranzo e a cena si mangiavano minestre di patate o di verdure o di legumi oppure zuppe al latte.
La carne, costosa, era raramente consumata.
La polenta era un piatto preparato abbastanza frequentemente; veniva a volte gustata con il latte.
I gnocchi (cuiette) di patate, le raviole alla vernantina (preparate con patate e porri), le cipolle ripiene (siule piene), le torte di riso e zucca venivano invece preparate solo durante le feste (Assunta, Natale, Pasqua) o per particolari occasioni (battesimi, nozze).
Quando i vernantini si ammalavano, si affidavano alle proprietà delle erbe curative o alle guaritrici-veggenti, poiché i dottori, ad inizio secolo scorso, erano pochi e costosi.
Anche per il parto, dunque, che avveniva di solito nella stalla, non ci si rivolgeva ai medici, bensì a donne adulte della famiglia (madre e/o suocera) che avevano una certa esperienza in materia.
I bambini che nascevano venivano battezzati il prima possibile (entro massimo otto giorni dalla nascita) così da evitar loro il limbo infernale in caso di morte prematura (cosa che avveniva piuttosto frequentemente).
Subito dopo il parto la donna doveva subire un’umiliante purificazione dalla gestazione da parte del prete, altrimenti non sarebbe più potuta entrar in chiesa.